Fabiana e la calabresitá
Nicola Fiorita - Il quotidiano della Calabria, 28 maggio 2013
Zeus non è calabrese. Anzi, nelle stanze dove si forgia il destino del mondo ci deve essere una certa antipatia verso questa terra. Come spiegarsi altrimenti questa invincibile forza che ci costringe ad essere sempre gli ultimi, i peggiori di tutti, i reietti di ogni storia, per quanto miserabile possa essere?
E questo stillicidio di cronache che si susseguono negli ultimi giorni, questo insieme tragico di uomini che picchiano, uccidono e violentano le donne sembrava averci già condotto fino al fondo delle miserie di cui sono capaci gli uomini, ma ancora una volta il peggio del peggio doveva venire, e doveva venire in Calabria.
l delitto più atroce, più incomprensibile, finanche più inaccettabile di tutti questi delitti inaccettabili doveva consumarsi qui, a due passi dai resti di una civiltà luminosa quanto antica che non siamo capaci né di rinnovare, né di conservare.
I peggiori ancora una volta siamo noi. Perché qui è l’inferno, sembra dire, con la sua lettera al Corriere della Sera, Francesca Chaouqui, direttore delle relazioni esterne di una grande e famosa multinazionale, nata in Calabria e scappata via da qui.
Non è difficile prevedere che molto si parlerà di questa lettera, che si inseguiranno le citazioni, si sprecheranno i richiami a Giorgio Bocca, a Corrado Alvaro, alla Lega e alla Magna Grecia, non è difficile prevedere che dalla Calabria si leverà una difesa identitaria, aspra e assoluta, che taccerà di razzismo e tradimento l’autrice della lettera.
Non vorrei unirmi a questo coro, non vorrei giocare al gioco dei buoni e dei cattivi, non vorrei sottovalutare il dolore che questa lettera aggiunge al dolore di tutti calabresi onesti ma neanche ignorare le ragioni che avranno spinto la dottoressa Chaouqui a descrivere una terra così arcaica e infelice. Mi pare più utile e più corretto, al contrario, aggiungere che io ho attraversato un’altra Calabria, ho conosciuto famiglie ricche di armonia e civiltà, ho intessuto rapporti di amicizia con donne emancipate e ricche di relazioni personali, ho frequentato luoghi e tempi ben diversi da quelli descritti nella lettera. Conosco una Calabria diversa, conosco uomini e donne libere dai pregiudizi del passato, so che non occorre arrivare a Bologna per incontrare professioniste di ottimo livello e madri capaci di ascoltare. Ho una figlia, e la sua nascita è stata una gran festa per tutti.
Si potrebbe facilmente obiettarmi che vengo da un contesto borghese, che ho frequentato e frequento prevalentemente una fascia sociale più aperta ed evoluta di altre. Ma allo stesso modo si potrebbe obiettare alla dottoressa Chaoqui che la sua descrizione pare ritagliata su un contesto di degrado o isolamento che non può rappresentare tutta la regione. Ma non è forse vero che l’esistenza di una stratificazione sociale siffatta è propria di tutte le città italiane e forse del mondo? E che l’unica differenza che divide Tunisi da Berlino è l’ampiezza di quelle fasce, la condivisione più o meno ampia di una scala di valori che inevitabilmente cambia a seconda del reddito, della cultura, del contesto ambientale, del quartiere in cui si cresce? E in questa scala di valori davvero crede la dottoressa Chaoqui che a contare sia solo la persistenza di tradizioni arcaiche e non anche la persistenza di posizioni maschili di potere che in Calabria come altrove possono ormai essere difese solo con la violenza?
A Genova come a Corigliano e come in mille altre città del nostro Paese, uomini infelici e violenti vedono scivolare via dalle mani un antico e irragionevole dominio sul corpo e sulla vita delle donne e reagiscono nel solo modo che conoscono. Ed è ingenuo pensare che la brutalità di quello che è avvenuto in Calabria possa differenziare una questione che è invece generale e che rimanda, dunque, al modello di società che costruiamo, al peso spropositato che in esso si assegna al potere, all’accettazione dei mezzi e delle forme con cui si conseguono le posizioni di comando a prescindere dalla loro eticità e dalla loro correttezza. La violenza non è un tratto della virilità calabrese, ma è un tratto del sistema sociale ed economico in cui viviamo, un tratto della gente di Aspromonte come dei dirigenti delle grandi multinazionali.
C’è un altro mondo da costruire e c’è un’altra Calabria da raccontare, prima che sia troppo tardi. Prima che la violenza diventi abitudine e la calabresità uno stigma.